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Dan Bilzerian, l’uomo che ogni uomo vorrebbe imitare
Milionario, pieno di ragazze e per lavoro gioca a poker. Ecco in poche parole chi è Dan Bilzerian, l’uomo che farebbe addirittura invidia a Tony Stark.
“Attore, astronauta, cazzone. E talvolta gioco a poker.” E poi dicono che i biglietti da visita degli imprenditori sono banali e piatti. Sarà che non eravate ancora inciampati in Dan Bilzerian, che si presenta così su Instagram. E che non è un wannabe tutto chiacchiere e ancor più fumo. Ma per capirlo dovreste conoscere la sua storia. Anzi, prima ancora, guardare le sue foto sulla sua pagina Facebook, dove ha milioni di fans e ammiratori. Poi lo invidierete! Ma durerà poco perché alla fine, prima o poi, vorreste essere lui almeno per un giorno.
Ma chi è Dan Bilzerian? Per capirlo bisogna partire dal padre, reduce del Vietnam, laureato alla Standford University con master ad Harvard. Un tipo geniale che, nel giro di pochi anni, era diventato uno dei boss di Wall Street. Certo, le vicende familiari oscillano tra scandali e condanne, ma l’ambiente forma anche il giovane Dan. Tale padre, tale figlio. E Dan, così, cresce in una villa megagalattica in Florida, a Tampa Bay. E poi decide di darsi al poker. Non che gli manchi da vivere, lo fa per puro diletto.
Così, tra un parco auto impressionante e decine di donne bellissime con cui organizzare festini a tema, Dan vive la vita che ogni uomo vorrebbe vivere almeno per un giorno. E la protegge gelosamente a suon di armi, visto che tra la dotazione di serie ha persino un arsenale da paura. Per il resto, la cura per la bella vita è la stessa che ripone nel proprio corpo, che tra barba e addominali custodisce come un tempio.
Fonte: GoLook.it
Forbes, aneddoti segreti sulla vita di Steve Jobs
Nelle ultime ore, Forbes ha condiviso pubblicamente in rete alcune storie e citazioni, tenute nascoste sino ad oggi, sul grande Steve Jobs, il genio fondatore di Apple che ci ha lasciato il 5 ottobre dell’anno scorso.
L’articolo pubblicato da Forbes, intitolato “Untold Stories About Steve Jobs: Friends and Colliges Share Their Memories.”, racchiude una serie di storie e frasi messe insieme grazie ai racconti di tutti gli amici e colleghi dello stesso Steve; da questo, possiamo capire che si tratta di aneddoti forniti da persone che hanno avuto la fortuna di lavorare o vivere in contatto diretto con lui.
La prima storia rivelata, da Randy Adams, riguarda l’ossessione di Steve Jobs per i dettagli all’interno del primo Apple Store. Eccola di seguito:
”Il design dello store che sembrava così ottimo su carta non riuscì a reggere il confronto con l’uso del mondo reale. I muri mostravano ogni impronta ed i pavimenti erano segnati da macchie nere causate dalle persone impegnate a preparare il negozio per l’inaugurazione.”
In seguito alla grande rabbia per questo dettaglio, Steve decise di non uscire a parlare con i giornalisti, e così, ecco una seconda rivelazione:
”Riuscirono a convincere Jobs ad uscire e la tenda venne fatta cadere davanti al piccolo gruppo di reporters. Quando vidi il pavimento, mi girai immediatamente verso Jobs, in piedi vicino a me, e gli chiesi se fosse stato coinvolto in ogni aspetto del design.
Rispose di sì. “E’ ovvio che chiunque avesse progettato il negozio non avesse mai pulito un pavimento nella sua vita,” gli dissi. Mi fisso e uscì.”
In seguito, Steve ordino a tutti i suoi designer di passare tutta la notte con le proprie mani e ginocchia a ripulire il pavimento dell’Apple Store, fino a che l’azienda non ordino di cambiare questo dettaglio.
Un’altra storia, rivelata sempre dallo stesso Randy, riguarda la passione per le auto da corsa di Steve Jobs. A quanto pare, infatti, Steve non amava affatto mostrare alle persone, e soprattutto ai suoi investitori, la sua disponibilità economica, e di questo ve ne accorgerete leggendo di seguito:
”Randy, dobbiamo nascondere le Porsche. Ross Perot sta arrivando e pensa di investire nella compagnia, e non vogliamo che creda che abbiamo tanti soldi.”
Successivamente, l’uomo d’affari Ross Perot, del Texas, investì 20 milioni di dollari in Apple, prendendo posto nel consiglio dell’azienda nel 1987.
Passando ora a quanto rivelato da Marc Andreessen, che fu invitato a cena da Jobs prima del lancio dell’iPhone, possiamo capire come Jobs seguisse il suo istinto più di ogni altro fattore. A quanto pare, infatti, dopo che Andreessen mostrò il suo disaccordo sulla mancanza della tastiera fisica sul dispositivo, Steve rispose con decisione ”Ci si abitueranno”.
Ovviamente, quanto scritto sopra non riguarda gli unici fatti tenuti segreti sulla vita di Steve Jobs, e per questo speriamo che presto venga fatta molta più luce sulla sua vita da chi ha avuto la fortuna di stargli vicino.
Fonte: GoLook-Technology.it
Anna Piaggi, eccentrica visionaria dello stile
Eccentrica, scrittrice, giornalista, visionaria, diva, divina, musa, mito.
Si potrebbero trovare migliaia di aggettivi per descriverla, ma la verità è che lei era semplicemente Anna Piaggi.
Colei che ha lanciato diverse mode o, meglio, ha creato le mode, la moda stessa, quel sistema che ci è tanto familiare più per le cifre da capogiro e la frenesia, che per i romantici albori.
Anna Piaggi ha creato il vintage, prima ancora che esistesse il termine o che qualcuno pensasse di indossare abiti usati.
La sua penna ha firmato centinaia di articoli per diverse riviste e periodici: Arianna, Espresso, Panorama, Vanity Fair e, ovviamente Vogue, dove con la sua rubrica “D.P. Doppie Pagine di Anna Piaggi” ha dettato le regole della moda, così come la conosciamo oggi.
Anna era così divina da essere stata musa ispiratrice per tanti: Karl Lagerfeld le ha dedicato un libro nel 1986, Anna-cronique, Manolo Blahnik ha affermato che è stata “L’ultima grande autorità internazionale in fatto di abiti”, quegli stessi abiti a cui il prestigioso Victoria & Albert Museum di Londra ha dedicato una mostra nel 2006.
Ma non era per gli abiti che Anna si era guadagnata la fama e un posto fisso in prima fila a tutte le sfilate. Anna incarnava il significato più puro e alto del termine moda. Anna era la moda stessa.
Non credeva nelle rughe, nel passare del tempo o delle mode. Per lei contavano i dettagli, gli attimi che rendono tutto speciale. Gli abiti, i cappelli estrosi, il trucco pesante e i capelli colorati erano solo alcuni dei modi con cui Anna Piaggi ha portato all’esterno la sua anima, la sua essenza.
I più vedevano solo una figura bassa e rotonda dai tratti pazzi ed eccentrici. Solo chi sapeva guardare al di là delle maschere e della facciata, era in grado di capire fino a fondo che la moda era la forma artistica con cui Anna esprimeva se stessa.
Il resto lo ha lasciato fare alle parole, parole che come un flusso irrefrenabile scriveva una dopo l’altra sulla sua Olivetti Valentine, inseparabile compagna dal 1969.
Quelle stesse parole rimarranno per sempre, anche adesso che Anna non c’è più.
Con lei non se ne va solo una grande scrittrice e una grande donna, ma anche un pezzo importante di storia della moda che non tornerà più. Arrivederci Anna.
Greta Miliani
Fonte: In Moda Veritas
Marrakech, art-de-vivre in stile marocchino
A Marrakech esiste un’ art-de-vivre, un’eleganza, una raffinatezza che non si trova in alcun altro luogo, affermava già in tempi non sospetti l’interior- decorator Jaques Grange, folgorato dalle prime suggestioni di una tendenza che andava appena delineandosi all’ombra delle mura della città ocra. Erano gli anni ’60 quando il giovane architetto parigino venne chiamato alla corte di Yves Saint Laurent e Pierre Bergé per trasformare in reggia da Mille e una notte una vecchia dimora nel cuore della medina. Quello che sembrava il capriccio di un eccentrico stilista di moda si sarebbe rivelato la scintilla di un’infatuazione collettiva, diventata in breve tempo una fiamma che ha tuttora il potere di accendere l’immaginazione e la curiosità di chi si mette in viaggio verso le antiche città imperiali. Alla ricerca di quel mondo evocato da Grange che si materializza dietro i pesanti portoni di legno che celano al mondo la meravigliosa intimità dei Riad, le abitazioni tradizionali raccolte attorno a un patio che regalano l’illusione di vivere come un Pascià. Se infatti fino a qualche anno fa abitare in una sfarzosa dimora storica di Tangeri, Fès o Marrakech era un privilegio riservato soltanto a una facoltosa élite cosmopolita di artisti, scrittori, rockstar e stilisti, oggi chiunque può alloggiare in un Riad trasformato in un sontuoso hotel-boutique d’atmosfera e sentirsi parte di un sogno. Come conferma Charles Boccara, architetto tra i più quotati a Marrakech: “In Marocco, in ogni vecchia casa, per quanto modesta sia, si vive come in un palazzo. Ognuno dispone di un lembo di cielo tutto per se, può ascoltare il canto dell’acqua e respirare i profumi del gelsomino e dei fiori d’arancio“. Muri spogli e inaccessibili fiancheggiano gli intricati vicoli che formano il labirinto della medina, non una finestra nè un balcone si affacciano sulla via, nel rispetto della tradizione islamica che impone di non mostrare mai gli interni, che per nessun motivo devono “essere esposti alle offese della strada“. L’unica apertura è il massiccio portone, che peraltro resta sempre chiuso. Ma basta superarlo per accedere al patio in cui zampilla una fontana, ombreggiato da alberi di aranci e limoni. Un semplice cortile solo in apparenza: questo quadrato di verde, ombra e acqua fresca rievoca l’oasi, il riposo e la tranquillità domestica contrapposte alle insidie dell’esterno. Tutt’intorno, al piano terra, si aprono i locali di servizio, la cucina, la sala da pranzo, a volte l’Hammam: per andare da una stanza all’altra si attraversa il patio, esaltandone cosi’ il ruolo di centro della casa, di fulcro della convivialità familiare, la piazza domestica. Al piano superiore si trovano invece le camere da letto raccordate da una balconata con la balaustra in legno di cedro finemente cesellata che ricorda i mousharabi, i pannelli dietro cui sultane e cortigiane osservavano, non viste, la vita sottostante. Il tetto, nella migliore tradizione mediterranea, è sostituito da terrazzi, formidabili punti di osservazione sulla medina che dall’alto appare come un impenetrabile labirinto “forato” da centinaia di giardini lussureggianti. Un tessuto urbano unico, più volte minacciato dall’inarrestabile avanzata della modernità. Paradossalmente, ai tempi del protettorato fu proprio il modernizzatore maresciallo di Francia Louis Hubret Lyautey a graziare in extremis (ma pure ad abbandonare al loro destino) i centri storici con un decreto che imponeva la costruzione in zone separate di nuovi quartieri (villes nouvelles) di stampo occidentale per la borghesia e i commerci. La medina, sempre più fatiscente, diventò così il ghetto della povera gente, fino alla recente rinascita, dovuta in gran parte all’ondata di immigrazione di lusso proveniente dall’Europa e dal Nordamerica. Ceduti dai vecchi residenti che sciamano verso le feroci urbanizzazioni periferiche, i Riad si trasformano in confortevoli dimore, maison d’hôtes e ristoranti; nella sola Marrakech si calcola che negli ultimi anni la metamorfosi abbia interessato non meno di 800 edifici. Molte di queste ristrutturazioni portano la firma e il tocco minimalista di Quentin Wilbaux, architetto belga titolare di un agenzia: “La città vecchia sta vivendo una seconda giovinezza. Chi investe in un Riad non acquista soltanto una casa di vacanza, ma partecipa al tempo stesso al progetto di recupero architettonico di questo centro storico tutelato dall’Unesco“. Ma non solo. Le ristrutturazioni condotte nel rispetto della tradizione contribuiscono a dare un nuovo impulso agli antichi mestieri artigianali e a salvare un patrimonio di competenze che rischiava di andare perduto, se non fosse stato trasmesso alle nuove generazioni di maâlem (capomastri). Il merito della riscoperta e della conseguente rivalutazione di molte di queste tecniche millenarie va a Bill Willis, il più famoso interior- decorators di Marrakech, oggi scomparso, dove è approdato negli anni ’60 da Memphis, Tennessee, al seguito del miliardario Paul Getty. È lui l’incontrastato maître-à-penser di quello stile marocchino etnochic, raffinato ed esotico, che amalgama sapientemente influenze arabe, amazigh, andaluse, e dettagli art déco, eredità francese; il tutto filtrato da un gusto occidentale contemporaneo e uptodate. Oltre alle ville e ai riad privati dei ricchi e famosi che Willis ha allestito come fossero set hollywoodiani, apoteosi di questo stile è il ristorante Dar Yacout di Marrakech, ambientato nell’antica residenza del governatore della Ville Rouge. Il mix di tendenze e influenze è quindi il segreto del nuovo stile marocchino, che si fonda sul privilegio di poter attingere a piene mani nel ricco artigianato dei souks. Impossibile immaginare la medina di Marrakech senza l’inarrestabile attivismo di ebanisti, ottonai, tessitori, conciatori, tintori e fabbri impegnati a creare arredi e oggetti d’arte che riflettono una tradizione secolare, pur adeguandosi a criteri estetici in continua evoluzione. Come conferma anche Renè Gast, tra gli organizzatori di Riad Art Expo di Marrakech, il primo salone del paese dedicato all’art-de-vivre: “Da Parigi a New York, lo stile marocchino è ammirato e imitato, al punto da essere considerato un modello più che una moda passeggera. Dalla cucina alle tradizioni, ciò che si definisce l’art-de-vivre marocchina si sta facendo strada un po’ ovunque, mentre l’artigianato continua ad evolversi senza perdere la propria identità. È la prova, nel caso ve ne fosse bisogno, che questa cultura è tra le più vivaci al mondo“.
Paolo Pautasso
Fonte: My Amazighen
Paula Cademartori
Il nome di Paula Cademartori mi è stato fatto per la prima volta due anni fa da un amico in comune. All’epoca lanciavo la rubrica Italia’s got creative talent su questo blog e cercavo creativi nel mondo della moda. Paula, pur non essendo italiana di origine – è brasiliana, ma nelle vene le scorre, come del resto tradisce il cognome, anche sangue italiano e del resto, abitando da anni nel nostro Paese, ha anche doppio passaporto -, mi ha colpita subito per le sue borse particolari. Per questo la ospitai volentieri e ho continuato, in questi due anni – che sono veramente pochi – a seguirla con interesse nella sua crescita. Oggi, finalmente, ci siamo incontrate in quello che ancora per poco sarà il suo studio – un appartamento in cui, tra l’altro, ha anche vissuto -, visto che entro giugno si trasferirà in un’altra location in zona San Babila. Le borse che ho avuto modo di vedere oggi appartengono in parte alla collezione p/e 2012 e in parte, invece, alla prossima collezione a/i. La cosa che mi ha colpito oggi, però, non è stata la collezione, che non mi ha delusa. Le borse, iconiche come sempre, sono iper colorate nella versione estiva, e femminili con fantasie floreali e materiali in camoscio, per quella invernale. Oggi mi ha conquistata proprio Paula che mi ha raccontato la sua storia che è esemplare, quella di una ragazza giovane che già a 21 anni era in Italia per seguire la sua passione per la moda – ha studiato sia all’Istituto Marangoni, sia, in seguito, alla Bocconi dove ha conseguito un master post laurea -; una ragazza che ha preso parte al prestigioso concorso organizzato da Vogue Who’s on Next, che ha lavorato sia per Orciani, sia per Versace e che attualmente si autoproduce con le consulenze che presta ancora ad altre case di moda per cui disegna accessori – sembra che le scarpe, in realtà, siano la sua vera passione e a giudicare dalla bellezza delle borse, c’è da credere che siano bellissime. Tra l’altro, tra i suoi sogni, c’è proprio quello di inaugurare anche una linea di calzature, e fra qualche anno, di aprire anche un monomarca -. Una ragazza che sta crescendo, che lavora instancabilmente perché crede nel suo progetto e lo porta avanti con passione, in un momento molto difficile, ma che non per questo si lascia scoraggiare. Una ragazza che nel giro di soli due anni è cresciuta producendo 600 borse all’anno venduta in punti vendita prestigiosi in Italia e all’estero e che si affida solo ad artigiani made in Italy – anzi, in Milan -. Certo, le sue borse non sono proprio alla portata di tutti, ma hanno a livello di design e di personalità, la stessa impalpabile allure di grandi marchi come Hermes. Sono borse eterne. Ne basta una.
Fonte: Vivianamusumeciblog’s
Tangeri, luoghi e personaggi della Beat Generation
Il portiere mi apre la reception e rimane un poco interdetto. Conosceva vagamente William Burroughs di nome e non comprende il mio interesse per la camera n.9 dove visse e scrisse Il pasto nudo. Una camera banale, un lavabo, un letto, un armadio e diversi buchi nel muro per ricordare che lo scrittore americano era un adepto del tiro con la pistola. Dalla finestra si vede il mare e l’ avenue d’Espagne, la Promenade des Anglais di Tangeri. L’Hôtel El Muniria o Villa Delirium, come lo chiamavano i beatniks che lo avevano eletto a loro rifugio, non figura nelle guide come luogo indimenticabile del turismo letterario a Tangeri. Tangeri, luogo di appuntamenti per gli scrittori della beat generation, venuti qui a respirare boccate di libertà, di haschic o di oppio. Jack Kerouak e Allen Ginsberg hanno camminato nella medina gustando forse hamburgher insaporiti di kif, si sono riempiti di pasticcini al miele e hanno tirato tardi nei caffè del Petit Socco (piccolo mercato). “E’ uno dei rari posti nel mondo dove si può fare quello che si vuole” proclamava Burroughs. A Tangeri, ci si arriva per una storia d’amore, per un rimpianto, per niente e per tutto. La città custodisce l’impronta della letteratura vagabonda e tante ombre del passato. Non si contano più i visitatori che hanno scritto diari di viaggio o romanzi in questo luogo ingolfato di storia. Sulla terrazza di uno dei caffè della piazza del Soco Chico, per esempio, batte ancora il cuore della medina, colmo di sentimenti antichi e di sguardi lancinanti, ancora emozionanti. Alla Fuentes, dove Tennessee William, Paul Bowles e Djuna Barnes erano degli habitué, o al Tingis frequentato dai beatniks, bisogna sedersi e guardare. Il Soco Chico è un teatro della vita. Tutta la medina viene qui a mostrarsi. Tennessee William e Gore Vidal stavano qui per dragare i ragazzi, Errol Flynn le ragazze, i Beatles invece per comprare l’hashic. La sede della Delegazione Americana, unico monumento storico classificato fuori dagli Stati Uniti, conserva nel suo Museo una sala dedicata a Paul Bowles. L’autore di Un thè nel deserto sta a Tangeri come Byron alla Grecia e Jack London all’Alaska, un bagliore eterno. La porta del Sahara è al centro della sua esistenza e delle sue opere. “Il mio soggiorno doveva essere di corta durata. Non avevo scelto di vivere a Tangeri in modo permanente; questo è successo tutto da solo“, confidò Paul Bowles dopo essere sbarcato una prima volta a 19 anni, nel 1931, quando il kif era ancora di libera vendita dai tabaccai. Tangeri lo conquistò al punto di farlo restare tutta la vita. Si è spento nel 1999, lasciando le sue valigie ad attenderlo per sempre, alla Delegazione Americana. Tangeri ha lo charme indefinibile di Trieste, di Alessandria d’Egitto o di Valparaiso. La letteratura non si è mai installata nei suoi muri. A partire dal XIX° secolo gli scrittori vi giunsero di soppiatto: Edith Wharton, Colette, Mark Twain, Pierre Loti, Paul Morand, Gore Vidal, Tennessee Williams, Somerset Maugham, Saint-Exupéry, Joseph Kessel, Henry de Montherlant, Jean Genet.. Nel suo “Impressioni di viaggio”, Truman Capote consigliava: ” Prima di partire ricordatevi di queste tre cose: fatevi vaccinare, ritirate tutti i vostri risparmi e dite addio ai vostri amici“. Buongiorno Tangeri la bianca. Una città che si offre su sette colline, “sistemata come una vedetta sulla punta più a nord dell’Africa“, come disse carinamente Pierre Loti. Per niente Africa e molto di Europa. Sino al suo reingresso nel Marocco, nell’ottobre 1956, Tangeri beneficiava di uno status particolare di protettorato: nove potenze la governavano, quattro monete, tre lingue ufficiali, arabo, francese e spagnolo. La città è rimasta un assemblaggio di mondi paralleli, architetturalmente e umanamente. La collina residenziale di Marshal e simile alle città alsaziane, cottage brittanici e case di agricoltori come in Louisiana. Ville ispano-moresche, normanne o basche vestono il quartiere della Montagna. Nella medina, i derb si riempono di impasse oscuri, le piccole strade in salita conducono alle terrazze nascoste. La Kasbah, cittadella del potere, a strabiombo con i suoi grovigli di costruzioni alla Escher, in una propspettiva alla De Chirico. I continenti si amalgamano, i destini si incontrano. Le strade si chiamano Vélasquez, Louisiana o Shakespeare, i viali Paris o Pasteur. Un paese della cuccagna per gli occidentali dai cuori friabili. I commercianti sono indiani, i muratori spagnoli, i cordai ebrei, i droghieri musulmani, i pasticceri francesi, gli aristocratici inglesi e gli spioni del mondo intero. Cristiani, ebrei e musulmani si ritrovano nella medina, parlano il tangerino, un mélange di spagnolo e arabo. La comunità spagnola, che si attesta su 50.000 persone dopo la guerra civile, si sente a casa. Nel vecchio quartiere spagnolo che domina il porto, a due passi dall’Hôtel El Muniria, un barbiere appoggiato all’ingresso del suo salone, mi indirizza un buenos dias. Boulevard Pasteur, l’arteria principale, dove gli abitanti si ritrovano alla sera sulla Terrasse des paresseux, davanti allo stretto di Gibilterra, per scrutare l’orizzonte dove il profilo della Spagna si avvicina o si allontana. Ieri, i contadini, con i loro muli carichi di prodotti della terra, si fermavano laggiù per riposare prima di continuare verso la piazza del Grand Socco. Qui si è scritta la Storia: è su questa piazza che Mohammed V mise fine al Protettorato. Questa vasta distesa separa la Tangeri mitica, con la sua medina del XII° secolo piegata sui suoi labirinti di strade strette, dalla Tangeri contemporanea immaginata dai francesi e installata su larghe avenues. Ieri, al Grand Socco, incantatori di serpenti, scrivani pubblici, commercianti di khôl e venditori di pane intrecciato si confondevano in un incredibile brusio; ai giorni nostri, i commercianti e gli sfaccendati si uniscono agli automobilisti e agli autisti di taxi nello stesso capharnaüm. Dopo la fine del Protettorato, la città non era altro che una borgata del Marocco che navigava nei suoi bei quartieri e nei suoi larghi viali.
Le grandi fortune disertarono la piazza. Tangeri, che non viveva d’altro che dei loro capricci e delle loro grandezze, entrò in una lunga notte. Hassan II, che non la portava nel cuore per via della sua ribellione, mai domata, alla monarchia assoluta, la accantonò. Tangeri declassata a difetto di un Paese. Il cinema Rif, tutto nuovo e scintillante, domina la piazza e l’ingresso della medina; la sua sala Art Déco inaugurata nel 1948 ospita una cinemateca, una biblioteca e un bar. Al posto di opere hollywoodiane, si proiettano film marocchini e dei film detti “di genere” che hanno contribuito al mito. Tangeri, paradiso dello spionaggio, luogo di tutti i traffici e di tutti i piaceri. Roteante, proibita, noir. La filmografia si riassume in una ventina di lungometraggi, la maggiorparte di serie B: Missione a Tangeri, Volo su Tangeri, Guet-Apens a Tangeri, La morte che rode, La Môme vert-de-gris, un polar del 1952 con Eddie Constantine nel ruolo di Lemmy Caution, agente dell’FBI, o ancora Uccidere non è un gioco, un James Bond del 1987. Un film, uno solo, le rende omaggio: è l’indimenticabile “Un the nel deserto” di Bernardo Bertolucci che si svolge nei luoghi reali come la Villa de France, l’Hôtel Continental, la strada di Tétouan o il Caffè Colon. Questi luoghi hanno conosciuto tempi migliori. La moribonda Villa de France, dove soggiornò Delacroix, domina un giardino a terrazze lasciato all’abbandono. Delacroix e Matisse l’hanno dipinto; Loti, Dumas, Montherland e Kessel lo descrissero nei loro romanzi. E prima di Bertolucci girarono alcune scene Julien Duvivier e Andrè Téchinè. Alla reception, un grammofono che si accompagna a un telefono degli anni ’30; l’Hôtel è rimasto nel suo succo, integro, e mi rallegro! Altre costruzioni si degradano, come il Gran Teatro Cervantes e l’Hôtel Cécil dove soggiornò Michel Foucalt. Tangeri è un luogo di memorie che bisogna preservare. E’ imperdonabile, e mi chiedo se diventerà un Paradiso perduto? I promotori immobiliari sembrano decisi a toglierle tutto il suo charme, le autorità preferiscono ai viaggiatori un turismo di massa. E se i tangerini sono colmi di nostalgia per quell’era di prosperità e di cultura del secolo scorso, la città invece vive un nuovo sogno. Dopo cinquant’anni di Purgatorio, Tangeri rinasce dalle sue ceneri. e il re Mohammed VI vuole restituirle il suo prestigio e a Tangeri ha riservato la sua prima visita ufficiale. Il Re è oggi un habitué di Tangeri, non solo per fare jogging o jet-ski. I progetti abbondano: il nuovo porto, zona franca, infrastrutture stradali, complessi turistici. Il perimetro urbano, che si ingrandisce ogni giorno per accogliere oltre un milione di tangerini, tende a soffocare la campagna. La città sta diventando un oggetto di coinvolgimento. Alcune celebrità si sono installate: Renaud, Bernard-Henry Lévy, Francis Ford Coppola e Richard Branson (Patron della Virgin), manifestando un innamoramento totale per la medina o dei suoi quartieri di Marshal o della Montagna. Cosa sarà di questa città culto? Una nuova Marrakech? Una città fashion con il suo pseudo souk, le sue lampade di Aladino, le sue babouches, le sue Fantasie e i suoi ristoranti con danzatrici del ventre? Ho paura.
Paolo Pautasso
Fonte: My Amazighen
Marocco, chirurgia estetica al top grazie al Dr. Fahd Benslimane
Il sole della chirurgia estetica e plastica mondiale si alza a sud, in Marocco, dove il successo del Dr. Fahd Benslimane è ormai mondiale, rivoluzionando i diktat estetici, sia a livello teorico che pratico sinora esistenti. Figlio di un preside di Rabat, Fahd Benslimane, è parte oggi del gotha mondiale in materia di chirurgia estetica. La sua teoria sul ringiovamento dello sguardo è nata dalla constatazione che gli approcci classici avevano una percezione sbagliata dell’invecchiamento attorno agli occhi. Il Professore rileva che da più di cinquant’anni si è focalizzato l’attenzione sulle borse e l’eccedenza della pelle a livello delle palpebre superiore e inferiori per definire le stigmate dell’invecchiamento. Il medico considera, che per avere uno sguardo giovane, non si devono avere ombre che provocano l’attenzione dell’osservatore. Questa conclusione, dopo studi su migliaia di sguardi umani e anche sui felini e sui primati. Confortato dai risultati, inizia lo sviluppo di un nuovo approccio estetico: “Il concetto di Marie Louise”, chiamato anche Benslimane’s Frame Concept, che parte dal presupposto che l’occhio è una vera opera d’arte e che le ombre periferiche costituiscono il quadro di questa tavola. “Più stretto è il quadro, più luminoso, glamour e sexy è lo sguardo”. Ma se la toria del Dr. Benslimane è rivoluzionaria in rapporto agli approcci classici, la sua tecnica è una decisa rottura con le pratiche in vigore oggi. La dove i tecnici classici basano i loro principi di “resezione e messa in tensione”, la sua tecnica è considerata “aggiuntiva e non sottrattiva”. Anzichè ridurre le “colline” il professore tende a “riempire le vallate”, utilizzando in un primo tempo il grasso, seguito poi da infiltrazioni con acido iauronico. L’italiano Fabio Gallina, specialista mondiale, ha dichiarato che il Dr. Benslimane ha rivoluzionato la parte superiore del viso e la sua teoria sul ringiovanimento della regione peri-orbitale ha capovolto l’approccio della medicina sul trattamento di certe parti del viso. Un avviso condiviso dal dermatologo canadese Wayne Carey, professore alla McGill University, che riconosce senza complessi le prodezze del suo collega marocchino, definito “una delle colonne mondiali” della disciplina. Formatosi in Marocco, Benslimane ottiene il suo diploma al Liceo Moulay Youssef di Rabat nel 1977, prima di iscriversi alla Facoltà di Medicina della capitale dove si laurea in chirugia generale, dieci anni più tardi, con merito. Per specializzarsi, parte per la Francia (Bordeaux) dove studia microchirurgia e chirurgia riparatrice. Un sostegno personale del defunto re Hassan II gli permetterà di partire per Rio de Janeiro dove vincerà un concorso internazionale di chirurgia plastica organizzato dal Professore Ivo Pitanguy, il guru mondiale della chirurgia estetica e plastica. Dopo il Brasile è la volta di Chicago, presso il Massonic Occulo Institute, dove diventa “clinical fellow”. Ritorna in Marocco per fondare, nel 1994, la sua clinica privata esclusivamente dedicata all’arte della chirugia plastica ed estetica.
Paolo Pautasso
Fonte: My Amazighen
Francesca Ruspoli… la principessa, gli Sloughi e Marrakech
Nata a Roma, la principessa Francesca Ruspoli si sentiva italiana ma cosmopolita. Dichiarava: “Sono irlandese e americana da parte delle mie nonne, austriaca, inglese e italiana dai miei genitori“. Questo mix di sangue colava letteralmente in lei facendola diventare una cittadina del mondo che ha però sempre vissuto in Italia, in Francia, in Svizzera e in Inghilterra, salvo poi fermarsi definitivamente davanti alla sua Marrakech, dove ci arrivò per caso, alla ricerca del sole. Con suo figlio Giancarlo Rocco di Torre Padula, nato dal suo primo matrimonio, si installò al Mamounia. “Passavo le mie giornate al sole, uscivo raramente per visitare la città e i suoi dintorni“, raccontava la principessa. Dopo qualche tempo fu sedotta dalla favolosa valle di Ourika, dove sui figlio trovò per lei una proprietà e, entusiasta, gli propose di acquisirla. Dopo la sorpresa iniziale la principessa accettò la proposta iniziando nel ottobre 1970 la costruzione della sua futura dimora, su di un terreno situato a 1.000 mt di altitudine, in un oliveto con 4.000 alberi circondato dalle montagne dell’Atlas, le più alte del nord Africa. La principessa stabilì le linee guida della casa aiutata da un capo cantiere della Martinica, Monsieur Virapin. I lavori durarono due anni e mezzo e fu necessario installare l’acqua potabile e l’elettricità, inesistenti. Tonnellate di terra furono trasportate sul sito per rassemblare e livellare tutta la superficie della casa su di una profondità di oltre un metro e mezzo, dopo aver scoperto l’argilla a due metri e mezzo di profondità. Avendo sempre preferito la campagna alla città, Francesca Ruspoli volle la sua “maison” semplice, calda e rustica, privilegiando ambienti spaziosi dove la luce e lo spazio, la texture e il colore, la forma e le linee, fossero privilegiate. Tutti i mobili inseriti ebbero un impronta naturale e funzionale, scaturiti dalle mani di artigiani marrakchis. Basti pensare che la tavola in cedro della sala da pranzo, con un diametro di oltre tre metri, richiedette la costruzione di una colonna in cemento armato per posizionarla. Immense le camere e stravagante è il dressing simile ad una tenda caïdale dove la proprietaria inserì le sue eleganti toilettes principesche, preferendo di gran lunga jeans ed espadrilles.
Una ventina di domestici e giardinieri sono serviti per la manutenzione del dominio dove sono state impiantati oltre mille alberi da frutto, cinquemila piante di rose e centinaia di alberi della Giudea. Nel momento in cui la villa divenne abitabile, spinta dall’amore smisurato per gli animali (i cani in particolare), decise di consacrare la sua vita alla salvaguardia dello Sloughi, il levriero del deserto, in quell’epoca minacciato realmente di estinzione, incrociato con cani non puri, i barhouchs. Giorni e notti, con tutta una equipe a sua disposizione, attraversò con la sua Land Rover le piste desolate e splendide del sud marocchino, alla ricerca degli ultimi sloughi che portò nella sua casa, iniziando un esclusivo allevamento. Aiutata da esperti, determinò le origini e i pedigree degli sloughi che non erano ancora stati stabiliti; un lavoro enorme che riuscì a salvaguardare la razza, tanto che ancora oggi si parla di lei in Marocco a riguardo degli sloughi. Della sua crociata conservò sino alla sua morte una collezione di immagini, collari e guinzagli d’epoca, oltre ai tanti trofei vinti dai suoi sloughi. Visse gli ultimi anni della sua vita con i suoi amati levrieri arabi, curando il giardino, leggendo e tricottando indumenti per i bambini dei suoi dipendenti e ricevette solo i pochi intimi. “Mi sento marocchina, e quando sono obbligata, una volta all’anno, a ritornare a Londra, non ho che un desiderio, quello di rientrare a casa, in Marocco“. Si spense nei primi anni ’90 lasciando le sue esperienze cinofile e i suoi cani all’amico veterinario marocchino Ali Miguil, grande conoscitore dello sloughi.
Paolo Pautasso
Fonte: My Amazighen
Eugène Delacroix, il Marocco del grande artista pittore
L’11 gennaio 1832, Eugène Delacroix si imbarcò a bordo della Perla in rada a Toulon. Destinazione: Tangeri. Il pittore dovette sostituire il collega Eugène Isabey, che declinò l’invito dell’Ambasciata straordinaria inviata da re Luigi Filippo alla corte del sultano Moulay Abd Al-Rahaman, comandante dei credenti. Questa delegazione condotta dal Conte di Mornay, anziano gentiluomo della Camera di Carlo X, ebbe inizio in un Paese dove le rivolte erano all’ordine del giorno. Al termine di questo viaggio, nel luglio 1832, dopo due scali in Spagna e ad Algeri, Delacroix accumulò un archivio consistente di note e di schizzi importanti. In effetti, i sei mesi che il pittore trascorse in “Barbaria“ lasciarono un impronta indelebile sul suo spirito e sulle sue future opere. La delegazione francese sbarcò nel porto di Tangeri il 25 gennaio, accolta in pompa magna dal Pacha della città, Sidi Larabi Saidi. Delacroix potè finalmente contemplare l’Oriente tanto sognato e dipinto da altri pittori orientalisti alla moda, “l’oriente profumato di broccati e di sete, di furberie e di armi damascate“. Dieci anni prima del viaggio in Marocco, Delacroix aveva già chiaro lo stordimento dell’Oriente, dipingendo nel 1824 e 1827 “Il massacro di Scio” e “La morte di Sardanapalo“. In Marocco, le immagini sempre sognate si tramutarono in realtà. ”Sono sempre più stordito da quello che vedo (…), sono in questo momento come un uomo che sogna e che vede delle cose che non crede di vedere“, scriverà dopo essersi inoltrato nei souks di Tangeri. “Il pittoresco abbonda qui. Ad ogni passo ci sono delle immagini che potrebbero fare la fortuna e la gloria per venti anni di generazioni di pittori (…) è un luogo fatto per i pittori, la bellezza abbonda, non la bellezza che si vanta nei quadri alla moda, ma qualcosa di più semplice, di più primitivo, di meno affardellato“. Nel suo diario il pittore rimarca a più riprese” la nobiltà naturale del popolo maghrebino, una bellezza pura, violenta, ma senza affettazioni. “La bellezza qui si unisce a tutto quello che serve. Noi, nei nostri corsetti, siamo ridicoli, facciamo pietà!, la grazia arriva dalla scienza“. Dellacroix troverà in Africa del nord, nella “violenza sorda, la vibrazione oscura” che evocò’ Albert Camus, l’essenza del Bello Antico che non era ancora denaturato dalle eredità di Poussin e altri classicisti.
Nel corso delle sue lunghe passeggiate nei dintorni di Tangeri, in compagnia di Charles de Mornay, Delacroix si meravigliò della bellezza di una natura rude e potente: “Provo delle sensazioni simili a quelle che ho provato nella mia infanzia“. Per non lasciare impallidire la vivacità dei colori che annegavano i suoi occhi e la fierezza e la bellezza di questi “barbari“, passò giornate intere a disegnare. Divenne un etnografo disegnando usi e costumi, ad acquerello e a matita, per imprimere tutta la vita palpitante attorno a lui. Descrisse minuziosamente i colori, le architetture, le figure, le attitudini, gli itinerari e tutte le peripezie del viaggio sin nei minimi dettagli. L’animazione di un accampamento, le lente carovane di dromedari sui cammini antichi, l’allure di un caftano, i particolari di un banco di spezie. Curioso insaziabile, nel corso delle sue deambulazioni nei souks e nei piccoli derbs di Meknès o Tangeri, Delacroix si fermòovunque, disegnando’ il viso di qualche soldato appoggiato ad una porta o, ignorando i costumi del Paese, ritraendole figure delle donne marocchine dietro i drappeggi dei loro haiks. La sua guida, Abraham Benchimol, non cessò mai di metterlo in guardia nel frequentare certi luoghi poco sicuri e malfamati. A Meknès, dove la delegazione venne ricevute dal Re del Marocco nel mese di marzo, Delacroix si confrontò, per la prima volta, con l’aggressività della folla e conobbe qualche “incidente di percorso”. “Gli abiti e le figure dei cristiani sono antipatici a questa gente e bisogna sempre essere scortati dai soldati (…) salire su di una terrazza equivale ad esporsi a lanci di pietre o a colpi di fucile. La gelosia dei Mori è estrema e sulle terrazze sono presenti le donne che si recano a prendere il fresco“. Nella città di Meknès si recò in visita ad una piccola sinagoga per dipingere degli ebrei che accettarono di posare per lui. Nel corso del suo periplo verso Meknès, Delacroix assistette ad una Laab el Barode, la Fantasia spettacolare data in onore degli ospiti del Reame per divertirli. Cavalcate, “balletti bizzarri di burnos, di caftani e di cappe, scoppiettanti cavalieri brandiscono le loro armi fiammeggianti, in un carosello di stendardi e di drappi volteggianti“. Le salve dei fucili lasciavano lunghe scie di polvere e di fumo, niente più di questa immagine rimase impressa e si concretizzo nelle sue opere che questi giochi di polveri. Dopo il suo viaggio in Marocco, Delacroix fece esplodere sulle tele l’esaltazione e la bellezza che appassionatamente visse in Marocco.
Testimoni sono le opere come “La presa di Costantinopoli“, “Fantasia araba”, “Il combattimento di Giaour e del Pacha” (1856) e ancora i “Zuffa di cavalli arabi nella scuderia” (1860), “‘Attila e i Barbari in massa ai piedi dell’Italia e le arti” della biblioteca del Palazzo Bourbon. Spettacolare “‘Apollo vincitore del serpente Python” su di uno dei plafond del Louvre. Delacroix ammirò a Meknès “le mura ocra sotto di un cielo cangiante leggermente azzurrato, alla Paolo Veronese“. Vero è che in Marocco l’artista si costruì un ricco repertorio di immagini, di paesaggi e di colori che non smise mai di ricordare nelle sue opere, sino alla fine della sua vita. A causa della difficoltà, tangibili, non gli fu mai possibile sistemare un cavalletto per strada e dipingere seduta stante quello che vedeva, anche pêr la difficile preparazione dei colori ad olio e, per questo motivo, Dellacroix durante tutto il suo viaggio in terra nord-africana abbozzò solamente degli schizzi, che divennero poi delle opere in Francia. Che furono realmente molte: “Il mercante di aranci” (1852), “Il ritratto dell’imperatore Abd Al- Rahman”, “Il marocchino che sella il suo cavallo” (1855), “Il cavallo all’abbeveratoio” (1862) e il famoso “Nozze ebree in Marocco” (1837-41. Il Marocco ha donato all’artista la matrice della luce, la fiammeggiante bellezza dei suoi colori e la foga a tratti “barbara” delle sue pennellate. Questa tappa capitale nel percorso di vita di Delacroix ebbe la capacità di far dimenticare le ombre terrose a cui era molto legato nella sua giovinezza artistica “romantica“. Come sottolineò Renè Huyghes, a proposito di Delacroix: “il sole caccia le ombre fumose dei romantici“. Il breve ma intenso passaggio in terra marocchina fu per il pittore una doppia rivelazione: quella della natura e quella della luce. Ma, senza dubbio, se ne puo’ contare una terza, più interiore in questo caso; quando venne a conoscenza del progetto di alcune rivolte e agitazioni politiche, in Francia, scrisse ai diretti interessati una lettera datata 5 luglio 1832: “Bene!, voi vi battete e cospirate, quanto siete ridicoli! Andate in Barbaria ad apprendere la pazienza e la filosofia“. Baudelaire scrisse di lui:” il pittore più originale dei tempi antichi e dei tempi moderni“, senza mai essere il capo fila di una scuola di pittura, anche se le sue opere sono l’annuncio di nuove tendenze artistiche: l’impressionismo e l’arte moderna. Delacroix ha dipinto la sensualità, la voluttà, la passione, la rabbia e la violenza miscelati a quel che di più dolce puo’ esistere nelle pieghe dell’essere umano; un sublime inno alla Bellezza, quella vera.
Credits: Maurice Arama, “Le Maroc de Delacroix” -Jaguar 1987/ Charles Baudelaire, “Salon de 1845″/ “Eugène Delacroix” in “Curiositès esthétiques”, Garnier, 1962,1986/ “Delacroix au Maroc”, colletif, éditions Rabat, 1963/ Maurice Sérullaz,” Delacroix”, Fayard, 1989/ Guy Dumur, “Delacroix e le Maroc”, Herscher, 1989.
Paolo Pautasso
Fonte: My Amazighen
Concorso d’Eleganza Villa d’Este, celebrazione fascinosa delle automobili d’epoca
Nobiltà autentica
Tra gli eventi che celebrano il fascino delle automobili d’epoca, il Concorso d’Eleganza Villa d’Este è probabilmente quello più rinomato. E certamente è quello di maggiore tradizione per essere stato istituito nel 1929. Dopo la sua rinascita negli anni 90, il Concorso ha visto migliorare di anno in anno i suoi contenuti che sono poi quelli che caratterizzano questo genere di eventi: la bellezza dello scenario, l’ospitalità impeccabile, l’efficienza dell’organizzazione, il programma delle giornate al Grand Hotel Villa d’Este e a Villa Erba, l’attenzione del pubblico, il risalto dato dalla stampa e dalle televisioni internazionali e, soprattutto, l’eleganza, l’originalità e lo stato di conservazione delle preziose fuoriserie che vi partecipano. Al Concorso d’Eleganza Villa d’Este si respira un’aria di autentica aristocrazia, diversa dall’atmosfera leggermente commerciale che contraddistingue gli altri eventi. Dopo un’attenta e rigorosa selezione, ogni anno confluiscono da tutto il mondo a Cernobbio le automobili più belle e importanti, accomunate da un design eccelso, dall’originalità e dal perfetto stato di conservazione, che ne fanno la migliore espressione dell’evoluzione dello stile dell’automobile. Sulle rive del Lago di Como, il parco di Villa d’Este fa da magnifica cornice all’esposizione di circa 50 automobili d’epoca costruite tra gli anni Venti e Settanta, suddivise in categorie omogenee. Presieduta da Lorenzo Ramaciotti, la Giuria formata da eminenti conoscitori del mondo dell’automobile assegna il premio “Best of Show”, offerto dal Gruppo BMW, all’automobile che più di ogni altra sa esprimere bellezza, passione ed unicità, in una parola a un’auto straordinaria. Ma a Villa d’Este anche il pubblico è protagonista: gli applausi ed i voti alle auto in gara decidono il vincitore del premio più tradizionale ed ambito del Concorso, la Coppa d’Oro Villa d’Este. Il Concorso d’Eleganza Villa d’Este, al cui crescente successo contribuisce il generoso patrocinio del Gruppo BMW, ha introdotto dal 2002 un nuovo premio riservato alle concept cars ed ai prototipi contemporanei e basato, come per le automobili d’epoca, essenzialmente sul design e sulle sue tendenze, alcune delle quali verranno introdotte nella produzione del futuro. Con ciò si riporta il Concorso allo spirito delle sue origini, quando i carrozzieri italiani ed esteri si avvalevano del Concorso per presentare alla loro clientela ed al pubblico i loro ultimi modelli. Oggi come ieri , il pubblico assegnerà il premio del Concorso d’Eleganza ad una di queste concept cars e prototipi esposti. Le automobili, i partecipanti, i giardini e gli edifici di Villa d’Este e Villa Erba, il meraviglioso paesaggio del Lago di Como e la presenza di un pubblico che si dimostra sempre assai interessato e competente rendono questo evento un’esperienza indimenticabile. l’avanguardia delle concept cars e dei prototipi più nuovi.