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Le meravigliose pareti illuminate del Gran Canyon (parte II)

Scendendo il bordo della gola a picco, imbavagliati con cura sotto un hackberry Stetson da vero cowboy, si raccoglie l’erto sentiero sulla strada che conduce verso il basso attraverso la gola profonda ricca di frastagliature ingannevoli che, con un semplice passo falso, potrebbero provocare una tragedia irrimediabile. Accompagnati dal grazioso nitrito dei cavalli si avverte il gonfiore lacerante dei tricipiti al di sopra del gambale dei Durango, anche la faretra sembra appesantire le spalle sotto il peso costante della calura, mentre il pensiero naufrago si annida sull’idea di arrivare in fretta alla prossima baita cercando di esaurire quel dolore secco dei piedi sostenuti entrambi dall’estasi del circondario. L’arrivo sul fondo scuro del terreno, imbrunito dall’ombra dei colossi montani, scorge la sensazione di essere avviluppati nell’umido.

Muovendosi attraverso i dirupi scoscesi del Canyon germogliano improvvisamente nuovi sentimenti di gratitudine per essere giunti lì da soli nel cuore del suo paradiso terrestre, immedesimati nel notevole spazio ricorrente, sterminato e solitario, idoneo per il riposo e il ringiovanimento. Un soffio improvviso stravolge la cute al di sotto del mantice di tessuto, necessario per non rimanere escoriati dai raggi del sole sovrastante l’espansione del territorio che illumina coriacemente le longeve scoperte geologiche solcate dall’erosione. Quel temporaneo isolamento si trasforma improvvisamente in una prelibatezza incommensurabile; l’avvento, il desiderio di voler raggiungerne il cuore pulsante verso l’interno per avvertirne l’amenità dal di dentro diventa una necessità insostituibile.

a cura di Marius Creati

 

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